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giovedì 15 agosto 2013

AGRICOLTURA NEL MONDO di Gianni Tamino

Premessa

L’agricoltura è una tecnica nata oltre 10.000 anni fa in grado di garantire alle popolazioni umane più cibo a parità di territorio. In precedenza i raccoglitori-cacciatori dovevano utilizzare un’area molto ampia per trovare bacche, frutti, radici e qualche animale da cacciare in quantità sufficiente da sfamare una tribù nomade di piccole dimensioni. Questa pratica non permetteva agli esseri umani, già presenti in tutto il Pianeta, di superare la dimensione di qualche milione di abitanti; l’agricoltura farà crescere questo numero nel corso dei millenni fino a centinaia di milioni, prima della rivoluzione industriale.
L’origine  dell’agricoltura  va  collocata  indipendentemente  in  più  aree  della  Terra:  anzitutto  la Mezzaluna fertile (cioè l’area mediorientale compresa tra Iran, Turchia orientale e Palestina), e poi l’India, la Cina, la Mesoamerica (Messico e America centrale) e le Ande (e forse altre regioni, come l’Etiopia, il Sahel, l’area sud orientale del Nord America, l’Amazzonia, la Nuova Guinea).

L’agricoltura industriale e la “rivoluzione verde”

Dopo la rivoluzione industriale, si è cercato sia di aumentare la superficie coltivata, conquistando nuove terre, sia di aumentarne la resa produttiva per ettaro, impiegando altre fonti di energia, soprattutto fossile, oltre quella solare (fotosintesi) e animale (trazione). La “rivoluzione verde”, come è stata chiamata l’industrializzazione dell’agricoltura avvenuta il secolo scorso, ha comportato oltre ad un incremento di produttività anche un notevole aumento dei consumi di acqua e di energia, non di origine solare, ma fornita dai combustibili fossili sotto forma di fertilizzanti, pesticidi, irrigazione e trasporti, alimentati da idrocarburi. Secondo Giampietro e Pimentel (1993) la “rivoluzione verde” ha aumentato in media di 50 volte il flusso di energia rispetto all’agricoltura tradizionale e nel sistema alimentare degli Stati Uniti sono necessarie fino a 10 calorie di energia fossile per produrre una caloria di cibo consegnato al consumatore. Ciò significa che il sistema alimentare statunitense consuma dieci volte più energia di quanta ne produca sotto forma di cibo o, se si vuole, che utilizza molta più energia fossile di quella che deriva dalla radiazione solare. Ma i maggiori consumi di energia e acqua riguardano la produzione di prodotti animali, soprattutto negli allevamenti intensivi, dove gli animali sono alimentati con mangimi a base di soia e mais, spesso OGM. I mangimi impiegati per ottenere una porzione di carne corrispondono ad una quantità di cereali e legumi sufficienti per alimentare 8-10 persone. Se tutta l’umanità volesse consumare la stessa quantità di carne pro capite degli Stati Uniti o dell’Europa, occorrerebbe avere a disposizione una superficie doppia o tripla di quella del pianeta Terra, da adibire tutta a pascolo e a coltivazioni di cereali.
Non si deve credere, però, che l’incremento di cibo ottenuto nel secolo scorso grazie alla “rivoluzione verde”, abbia risolto i problemi della fame o del sottosviluppo. Già nel 1981 Le Monde Diplomatique nel suo Dossier n. 8 “Ricchezza e Fame” notava che “la rivoluzione verde e l’applicazione di modelli industriali di sfruttamento della terra erodono le basi di sussistenza autonoma di milioni di contadini, costringendoli ad emigrare verso le nuove megalopoli del terzo mondo”, e si chiedeva “ è la premessa di una nuova rivoluzione industriale o il perpetuarsi, sotto nuove forme, del sottosviluppo?”
Dal 1960, quando ha incominciato a diffondersi la rivoluzione verde, la produzione di cereali nel mondo è aumentata di 3 volte, mentre la popolazione mondiale è cresciuta poco più di 2 volte, e la disponibilità di alimenti per persona è cresciuta del 24%. Ma nel 1960 si stimava che - in tutto il mondo - ci fossero 80 milioni di persone che soffrivano la fame, mentre nel 2006 sono diventate
880 milioni e nel 2009 gli affamati nel mondo hanno superato il miliardo, secondo i dati della FAO.
Fino al 1960 la maggioranza dei paesi era autosufficiente nella produzione di alimenti per i propri
popoli, tranne alcune regioni dell'Africa con grandi problemi climatici, oggi, il 70% dei paesi
dell'emisfero sud sono importatori di alimenti.
Dunque il cibo non manca, ma è distribuito in modo non equo: se un miliardo di persone soffre la fame, altrettante consumano molto più del necessario, andando incontro a problemi di obesità e malattie metaboliche legate all’eccessivo consumo di cibo, soprattutto di origine animale.
Come afferma Vandana Shiva: “La maggiore resa dei prodotti agricoli industriali si basa sul furto del cibo, ai danni delle altre specie e dei poveri rurali del Terzo mondo. E questo spiega perché da una parte si producono e si commerciano più cereali a scala globale, e dall’altra cresce nel Terzo mondo il numero delle persone che hanno fame. Sul mercato globale, i mercati hanno più merci da scambiare, perché il cibo è stato rubato ai poveri e alla natura”.

Tipi di agricoltura

Attualmente le diverse modalità di agricoltura presenti nelle varie parti del mondo possono essere riassunte in tre tipi: l’agricoltura commerciale, l’agricoltura di sussistenza e l’agricoltura di piantagione.
Se la produzione agricola è destinata al consumo diretto, familiare o comunque locale, si ha un'agricoltura di sostentamento o di sussistenza, condotta con tecniche tradizionali e non molto produttiva. Quando, invece, la produzione è destinata al mercato si ha un'agricoltura commerciale, il cui fine è produrre per vendere e massimizzare i profitti.
L’agricoltura commerciale, fondata su tecniche avanzate e di tipo industriale, è presente soprattutto nelle parti ricche e industrializzate del mondo. I proprietari terrieri producono vari prodotti (soprattutto cereali e soia) a costi tendenzialmente bassi e con basso utilizzo di mano d’opera. L’agricoltura di sussistenza è presente soprattutto nel Sud povero del mondo, dove i contadini hanno poca terra, non hanno macchine per lavorarla e producono solo quanto basta per la loro famiglia; in questo tipo di agricoltura, che coinvolge l’intera famiglia, l’agricoltore e i suoi famigliari consumano direttamente quanto producono. Si tratta sostanzialmente di un’economia chiusa e chi la pratica vive in una situazione di equilibrio precario: basta infatti una calamità naturale come una siccità prolungata, piogge eccessive, un’invasione di cavallette perché l’equilibrio si spezzi e se il raccolto va perso è la carestia, la fame.

L’agricoltura di piantagione è anch’essa presente nel Sud del mondo, ma per produrre prodotti tropicali molto usati nei paesi ricchi (caffè, cacao, banane). È moderna e ricca, ma i guadagni non sono dei contadini, ma delle grandi imprese, spesso multinazionali, che hanno la terra e che praticano una monocoltura intensiva su vasti spazi. I prodotti sono destinati ai mercati d'esportazione, perpetuando così un legame commerciale di tipo coloniale. Come afferma Emrys Jones (Enciclopedia delle Scienze Sociali, Treccani) all’origine “si tratta comunque di una forma di agricoltura praticata esclusivamente nelle zone tropicali e su vasta scala, che comporta un certo trattamento del prodotto. Il suo carattere 'intrusivo' dipende dal fatto che essa viene organizzata da un'autorità straniera e implica l'assoggettamento della popolazione indigena: il controllo, da parte degli occidentali, delle società tribali.”
Questo sistema agricolo nasconde gravi rischi per i paesi che lo praticano: anzitutto la monocoltura impoverisce i suoli, crea dipendenza nei confronti dei fertilizzanti di sintesi ed accelera i processi di erosione, in particolare in ambienti fragili quali gli ambienti tropicali. Inoltre le multinazionali sottraggono i terreni migliori alle comunità di villaggio, che praticano un'agricoltura di sussistenza, e tendono ad allargare la loro frontiera agricola in misura direttamente proporzionale alle richieste del mercato ed alla caduta in fertilità dei suoli.
L'agricoltura nei paesi del terzo mondo è spesso caratterizzata da una economia a più facce, dove l'agricoltura di sussistenza si contrappone all’agricoltura di piantagione e di mercato, organizzata in forma di monocoltura speculativa, dove la piccola proprietà deve confrontarsi con la grande proprietà terriera e la produzione interna è minacciata dai prodotti importati. La presenza, in uno stesso paese, di due sistemi agricoli così diversi quali la piantagione e l'agricoltura di sussistenza innesca pericolose conflittualità, a causa delle quali le aziende agricole familiari sono sempre più in difficoltà. Le immense proprietà, eredità della conquista coloniale, sono sfruttate al di sotto delle loro potenzialità da proprietari che hanno a disposizione un'abbondante manodopera a basso costo.
Spesso i contadini "senza terra" sono costretti, per necessità, ad indebitarsi ed alla fine si trovano obbligati a lavorare per numerosi anni senza salario: rinasce così una nuova forma di schiavitù, la "schiavitù per debito".
Oltre e all’interno dei tre principali tipi di agricoltura distinguiamo anche forme di coltivazione basate o sulla monocoltura o sulla policoltura. Nel primo caso la specializzazione colturale è estrema, su vasti spazi domina la coltivazione di una sola specie, solitamente praticata in maniera estensiva. Nel secondo caso invece, anche nell’ambito di una stessa azienda, si riscontra una varietà di colture più o meno forte. I paesaggi policolturali danno inoltre origine alle colture promiscue nel caso in cui su un appezzamento di terreno coesistano due o più specie diverse; un tipico esempio di agricoltura promiscua è dato dalla tradizionale agricoltura mediterranea.
Un’altra distinzione va fatta tra agricoltura intensiva ed estensiva. L'agricoltura intensiva tende a sfruttare al massimo la fertilità dei suoli ed ha come fine le alte rese per ettaro. Nell'agricoltura estensiva le rese per ettaro sono modeste e gli incrementi di produzione sono sostenuti dal continuo aumento delle aree coltivate.
Vanno poi considerate le diverse forme di organizzazione della proprietà fondiaria. Una prima distinzione può essere fatta fra le terre di proprietà privata, presenti nelle economie di mercato, e quelle di proprietà collettiva a struttura tribale o comunitaria presenti in numerosi paesi del terzo mondo.

La produzione agricola

La produzione mondiale di cereali (Tilman et al., Nature, 2002) tra il 1960 e il 2000 è sempre cresciuta, ma a partire dal 1980 questa crescita è divenuta più lenta fino a stabilizzarsi nell’ultimo decennio, mentre il consumo di fertilizzanti azotati e di acqua è cresciuto costantemente come la produzione e l’importazione di pesticidi. Ciò significa che per mantenere costante la produzione agricola si consuma sempre più prodotti chimici di origine fossile (fertilizzanti, pesticidi e combustibili per irrigazione e trasporti). Non stupisce dunque che l’andamento dei prezzi dei cereali segua quello del petrolio, con gravi problemi collegati alle impennate dovute alla crisi economica in atto e alle speculazioni tramite i contratti “futures” sui cereali stessi (cioè acquistando ora per avere i cereali fra vari mesi, sperando nell’aumento del loro valore); questo tipo di contratti è cresciuto esponenzialmente negli ultimi 15 anni. Così si è avuta un’impennata dei prezzi tra il 2007 e il 2008, seguita da una repentina caduta e successivi aumenti e diminuzioni, che hanno reso incerto sia il reddito degli agricoltori che il prezzo finale dei prodotti derivati. In particolare il recente aumento del costo dei cereali, che ha fatto lievitare il prezzo del pane, ha innescato la rivolta in Egitto.
Negli ultimi anni la produzione di cereali è passata (in milioni di tonnellate, sulla base dei dati FAO e del Grain Market Report) da 2.241 nel periodo 2008/2009, a 2.224 nel 2009/2010, per passare a 2.256 2010/2011: in pratica è rimasta costante.
Per avere un confronto con il passato si può ricordare che la produzione è stata (sempre in milioni di tonnellate), 932 nel 1961 (all’inizio della rivoluzione verde) e 2.244 nel 2005, più o meno i valori riscontrati negli anni successivi. Analogamente la produzione del solo frumento tra il 2004 e il 2009 è stata rispettivamente di 633, 629, 606, 607, 683, 682 milioni di tonnellate, mentre nel 1961 era di 223 milioni di tonnellate.
In Italia, nel periodo tra il 1999 e il 2009, il frumento ha avuto produzioni oscillanti tra un minimo nel 2003 e un massimo nel 2008 (rispettivamente 6,2 e 8,9 milioni di tonnellate), partendo da 7,3 nel 1999, per tornare a 6,3 nel 2009.
Le prospettive per il futuro non sono rose, infatti la Coldiretti riportava nel 2009, sulla base di dati ONU, che un quarto della produzione alimentare mondiale potrebbe andar perso entro il 2050 per l'impatto combinato del cambiamento climatico, degrado dei suoli, scarsità di acqua e specie infestanti. Va inoltre ricordato che, secondo la FAO, il 36% di tutti i cereali prodotti al mondo viene impiegato per nutrire gli animali da carne e da latte, con differenze che vanno dal 4% in India, al 25% in Cina, al 65% negli Stati Uniti. Un ettaro coltivato a soia produce 1.800 chili di proteine vegetali, lo stesso terreno adibito a pascolo e allevamento produce appena 60 chili di proteine animali. In Italia oltre il 95% del mais prodotto serve a produrre mangimi.

Ruolo delle multinazionali

Per capire il ruolo delle multinazionali, di cui si è già accennato a proposito dei diversi tipi di agricoltura, vale la pena di fare il caso della più importante di queste aziende, la Monsanto. Si tratta di un’industria statunitense che si è affermata un secolo fa come industria chimica, e, dopo la seconda guerra mondiale, ha messo a profitto tale esperienza producendo defolianti (l’agente “orange”), utilizzati nella guerra in Vietnam. Finita la guerra, ha riciclato la tecnologia bellica in tecnologia agricola ed ha iniziato a produrre diserbanti e pesticidi in genere. Il business agricolo era così conveniente (grazie alla “Rivoluzione Verde”), che acquisisce le industrie sementiere per creare un unico comparto agro-chimico-sementiero. Negli anni ’80 del secolo scorso acquisisce anche le aziende biotecnologiche e realizza sementi OGM brevettate, resistenti ai propri prodotti chimici. Così il ciclo è chiuso e il diritto dei popoli ad utilizzare le proprie sementi e prodursi il proprio cibo, viene subordinato agli interessi e ai profitti della multinazionale.
Gli OGM (o piante transgeniche) sono l’ultimo capitolo della rivoluzione verde, partita con la chimica ed approdata alle manipolazioni genetiche delle piante. Molte ricerche hanno evidenziato rischi per l’ambiente e per la salute derivati dall’utilizzo di OGM, ma la lobby delle aziende che producono organismi transgenici hanno adottato strategie di propaganda indirizzate a nascondere o sopprimere la verità, utilizzando in modo scorretto fonti d'informazione che ispirano fiducia e diffondendo un'informazione distorta e non obiettiva con l'intento di cambiare l'opinione pubblica e far sì che i legislatori favoriscano l'interesse dell'industria. Non è affatto vero, come qualche volta si afferma, che l'alternativa alle coltivazioni transgeniche è l’uso di pesticidi. Anzi uno dei prodotti agricoli transgenici più diffusi è la soia che è stata modificata geneticamente dalla Monsanto per essere resistente ad una maggiore quantità del proprio pesticida “roundup” (ad oggi oltre l’80% delle piante transgeniche coltivate sono tolleranti ad un erbicida). Le multinazionali biotecnologiche vogliono far credere che gli OGM salveranno le popolazioni dalla fame. Peccato che in Argentina nel 2002 in piena crisi da default, mentre i bambini morivano di fame, le multinazionali esportavano in Europa la soia transgenica prodotta in quel paese, per farne mangimi.
Ma ancor più pesante può essere il condizionamento attuato dalle aziende biotecnologiche grazie alle norme brevettuali. Con il termine “brevetto biotecnologico” si intende la protezione commerciale sia di un organismo geneticamente modificato, che delle tecniche per ottenerlo e riprodurlo, ma anche di geni utilizzati per ottenere il nuovo organismo. In tal modo tutti i paesi più ricchi del pianeta possono, grazie alle loro tecnologie e alle norme sui brevetti impadronirsi del patrimonio genetico di tutti gli organismi del pianeta. Le multinazionali biotecnologiche stanno brevettando geni di piante utilizzate nella medicina e nell’agricoltura tradizionali, senza coinvolgere i popoli che per secoli hanno utilizzato queste piante: siamo di fronte ad una vera azione di “biopirateria” dei geni, che dovrebbero essere patrimonio collettivo dell'umanità.
Se si pensa che tre piante (riso, frumento e mais) rappresentano oltre il 50% della produzione agricola mondiale, qualora una multinazionale riuscisse a brevettare queste tre piante, potrebbe avere un potere di controllo e di ricatto non solo economico ma anche politico su tutto il pianeta. La Monsanto sta già controllando il mercato del mais e sta cercando di brevettare piante di riso e di frumento, mentre oltre il 50% di tutti i brevetti concessi negli USA appartengono a tre aziende (Monsanto, DuPont e Syngenta).

Agricoltura e lavoro

La meccanizzazione dell’agricoltura ha provocato nei paesi industrializzati una forte riduzione degli occupati, passati da circa 117 a 48 milioni. Nei paesi meno sviluppati, invece, dove la modernizzazione è meno diffusa e maggiore è la crescita demografica, il numero di addetti è raddoppiato (da circa 700 milioni a 1,3 miliardi).
Nei paesi poveri le attività agricole impiegano la maggior parte della popolazione attiva (l’85% nell’Africa sub-sahariana), che pratica soprattutto un’agricoltura tradizionale di sussistenza, destinata a soddisfare il fabbisogno alimentare delle famiglie contadine.
Nei paesi più sviluppati l’agricoltura occupa una piccola percentuale di popolazione attiva (dall’1 al 5%) e non costituisce la principale fonte di reddito. L’agricoltura di sussistenza è scomparsa ed esiste solo un’agricoltura di mercato, in cui le coltivazioni sono realizzate da aziende agricole che vendono i propri prodotti sui mercati nazionali e mondiali. Le colture sono organizzate, come già detto, in base a modelli industriali: le aziende producono grandi quantità di una o di poche piante agricole utilizzando molti macchinari, prodotti chimici, sofisticati sistemi di irrigazione.
In Italia all’inizio del secolo scorso la situazione era simile a quella descritta per l’agricoltura di sussistenza: su 33 milioni di abitanti, gli addetti all’agricoltura rappresentavano il 44% della popolazione attiva. Ancora nel 1940, in conseguenza della politica autarchica, nel mezzogiorno gli addetti all’agricoltura erano più del 60%. Nell’ultimo dopoguerra in tutta Italia gli occupati in agricoltura rappresentavano il 42% della popolazione attiva e nel ’60 erano ancora il 29%, mentre nel 1971 erano scesi al 17%.
Nell’ultimo decennio l’occupazione in agricoltura (compresi silvicoltura e pesca) era rispettivamente del 4,9% nel 1999 e del 3,9% nel 2009 (INEA, rapporto sullo stato dell’agricoltura 2010), con netta prevalenza di occupati al sud e isole (poco meno della metà degli 874.000 occupati); tuttavia a questi vanno aggiunti gli stagionali (raramente in regola, emersi in parte solo recentemente, con l’utilizzo dei voucher) sia italiani, ma soprattutto stranieri: L’ISTAT calcola che gli irregolari ammontino a oltre il 35% del totale degli addetti del settore.

Problemi sociali e ambientali posti da un’agricoltura globalizzata

Il settore agricolo sta oggi vivendo, a causa della crisi, una fase di intensa pressione, che si sta traducendo in una progressiva compressione dei redditi, che in alcuni settori sta mettendo a rischio la continuità di ampie fasce di imprenditorialità agricola. La fotografia scattata dall’Eurostat segnala per il 2009 una diminuzione dei redditi agricoli per unità lavorativa pari all’11,6% rispetto all’anno precedente. Riduzioni che si sono rivelate sensibili soprattutto in alcuni contesti come Ungheria (-32,2%), Italia (-20,6%), Germania (-21%) e Francia (-19%).
La politica agricola comunitaria (PAC) ha favorito le grandi aziende, soprattutto del nord Europa, penalizzando l’Italia, caratterizzata da piccole aziende con pochi addetti; solo 1/3 delle nostre aziende presenta una redditività reale soddisfacente in quanto uguale o superiore alle remunerazioni ottenibili in occupazioni alternative.
L’Italia, inoltre, dipende sempre più dall’importazione di prodotti agricoli; ad esempio per il grano duro, di cui è importante produttrice, dipende dall’estero per un terzo dei circa 6 milioni di tonnellate consumate; ciò dipende anche dalla volatilità dei prezzi, che, dopo improvvise crescite (che spingono i nostri agricoltori ad aumentare la produzione), ha portato a valori poco remunerativi, favorendo le importazioni. Siamo poi forti importatori di prodotti orticoli e di frutta, soprattutto “fuori stagione” rispetto all’Italia. Siamo, invece, esportatori di vino, ma in caso di crisi delle produzioni agricole mondiali, sarà difficile riconvertire questo settore, per produrre alimenti essenziali, da consumare vicino al luogo di produzione.
La futura PAC, che partirà dal 2013, dovrebbe essere più attenta ai problemi della sostenibilità ambientale, sociale ed economica; sulla base dei discorsi ufficiali del Commissario europeo, la nuova PAC dovrà essere pensata “per rispondere alle diverse agricolture che contraddistinguono il territorio allargato dell’Unione e dovrà conseguire gli obiettivi legati alla sicurezza alimentare, il cambiamento climatico, la protezione dei suoli e delle risorse naturali, la crescita economica delle aree rurali” (Cioloş, 2010). Ma l’esperienza insegna che a Bruxelles hanno sempre privilegiato l’agricoltura del nord Europa rispetto a quella mediterranea e la quantità rispetto alla qualità. Nello scenario dell’agricoltura europea globalizzata, quella italiana mostra sempre più difficoltà, a fronte di una concorrenza estera (soprattutto extracomunitaria) sempre più agguerrita ed organizzata. Anche per questo l’impresa agraria italiana, secondo uno studio di Mazzarino e Pagella (2003), è tanto più competitiva quanto maggiormente riesce a contribuire al successo del prodotto finale, attraverso il controllo della qualità, e quanto più vantaggiosamente riesce a stabilire un rapporto diretto con il cliente, che diviene centrale per il successo dell’azienda. Tutto ciò sta favorendo un’agricoltura sostenibile come quella biologica (di cui l’Italia è il primo produttore in Europa) e la filiera corta, attraverso la vendita diretta in azienda, i mercatini locali e il rapporto con i Gruppi d’acquisto solidale (GAS).

Movimenti contadini per il diritto alla terra e alla sovranità alimentare

Anche alla luce della attuale difficoltà del processo di globalizzazione, evidenziato dalla crisi finanziaria e dal blocco degli accordi in sede WTO, è necessario pensare ad un futuro per l’agricoltura e per l’alimentazione del pianeta basati sulla sovranità alimentare, sulla difesa del suolo e sul pieno utilizzo della biodiversità disponibile. Il suolo agricolo e il cibo vanno considerati beni comuni, che devono essere gestiti direttamente dalle comunità interessate. Ma anche il sapere, compresi i saperi contadini, sono beni comuni da difendere e da mantenere all’interno delle comunità.
Sempre più spesso i contadini che praticano un’agricoltura di sussistenza in un’economia di villaggio, soprattutto nel sud del mondo, vengono espropriati delle proprie terre, per effetto di un processo di accaparramento (o land grabbing). In Africa centrale, ad esempio, notabili locali si fanno dare, spesso con l’inganno, terreni che appartenevano da sempre ai villaggi agricoli, dove la gente si sfamava coltivando miglio e arachidi e allevando capre, per poi rivendere queste terre a multinazionali o a paesi stranieri, sia per estrarre materie prime che per produrre biocarburanti, mentre le popolazioni locali restano senza mezzi di sussistenza, costrette a migrare. L’accaparramento massiccio di terre, praticato da stati terzi o da interessi privati per acquisire cibo, energia, risorse minerarie e ambientali, ma anche a fini speculativi o per interessi geopolitici, viola i diritti umani dei produttori di cibo (comunità locali, indigene, contadine, pastorali o di pescatori) poiché limita la loro possibilità di accesso alle risorse naturali, ne condiziona le scelte in materia di produzione e aggrava le disuguaglianze di accesso e controllo alla terra per le donne.
Il secondo aspetto, conseguenza dell’agricoltura globalizzata, è la perdita di sovranità alimentare. Secondo Via Campesina la sovranità alimentare è “il diritto dei popoli a definire le proprie politiche agricole e alimentari. Il diritto di ogni nazione a mantenere e sviluppare le sue capacità di produrre alimenti di base, rispettando le diversità culturali e produttive. Il diritto a produrre il proprio cibo sul proprio territorio”. Il concetto di sovranità alimentare contiene quello di sicurezza alimentare, inteso come la “possibilità/diritto di ogni Paese a produrre una quantità sufficiente di alimenti, rendendoli accessibili a tutti”. Ma la sovranità alimentare è qualcosa di più, perché aggiunge il diritto a quale cibo, a come lo si produce, dove e per chi. In altri termini “La sovranità alimentare è il diritto dei popoli a definire le proprie strategie sostenibili di produzione, distribuzione e consumo di cibo, che garantiscano a loro volta il diritto all’alimentazione di tutta la popolazione”.
Sulla difesa del proprio territorio, di fronte ad un crescente accaparramento delle terre, e sul principio della sovranità alimentare, sono sorti nel mondo vari movimenti di difesa dei contadini. Il movimento, o meglio la rete dei movimenti contadini più famosa è la già citata Via Campesina, presente in tutto il mondo. Come scriveva Giuseppina Ciuffreda su Alias (30/12/2000) “Via Campesina nasce per coordinare la resistenza dei movimenti contadini di Europa, Asia, e Africa. A Seattle nel 1999, Via Campesina chiede che l’agricoltura sia fuori dall’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), il guardiano del libero mercato, perché non si possono affamare i popoli, e rivedica i “diritti dei contadini” che aveva presentato a Roma, nel vertice mondiale della Fao del 1996. Per sfuggire ai debiti e sopravvivere, l’autosufficienza alimentare garantita dalle economie di sussistenza con il ritorno a metodi di coltivare tradizionali organici, è la strategia più realistica per i due miliardi di contadini e popoli tribali del Terzo Mondo”. Oggi la battaglia di Via Campesina è incentrata sulla difesa della sovranità alimentare di ciascun popolo e contro l’accaparramento delle terre. Oltre Via Campesina, che è una rete mondiale, si battono per questi obiettivi i “Sem terra” in Brasile, il movimento Navdanya, promosso da Vandana Shiva, in India, e molti altri in varie parti del pianeta.
Partendo dal presupposto che l’agricoltura contadina a conduzione familiare, cui appartiene la maggior parte degli agricoltori del mondo, è quella che meglio assolve alla funzione di nutrire il pianeta, generare sviluppo nelle aree rurali e garantire la conservazione delle risorse naturali a beneficio delle generazioni future, i movimenti contadini chiedono di porre immediatamente fine a qualsiasi appropriazione di terre in corso o futura, con lo slogan: “Contadini del mondo contro l’accaparramento delle terre: terra a chi la lavora e nutre il mondo”.
Ma la sovranità alimentare non è un problema che riguardo solo il Sud del mondo: anche da noi la cosiddetta “rivoluzione verde” ha trasformato l’agricoltura e il territorio, rendendo sempre più difficile l’obiettivo dell’autosufficienza alimentare, mentre la speculazione edilizia e recentemente la produzione di energia da biomasse e l’utilizzo del fotovoltaico sui campi, sta riducendo drasticamente la superficie agricola utilizzabile.
Ogni Paese, compreso il nostro, dovrebbe riportare l’agricoltura, con modelli sostenibili e utilizzando la biodiversità, alla produzione di cibo in grado di soddisfare le esigenze alimentari locali, delle comunità. Riappropriarci del controllo della produzione agricola, cioè della sovranità alimentare, è anche il miglior modo per favorire l’indipendenza e la sovranità alimentare degli altri popoli, a partire da quelli sfruttati del sud del mondo, costretti a produrre cibo per noi, attraverso l’agricoltura di piantagione.
Consumare prioritariamente prodotti agricoli del proprio territorio, valorizzando le varietà locali, ridurre i consumi di prodotti di origine animale, eliminando i mangimi OGM, ma anche favorire la diffusione di orti collettivi e l’autogestione dei consumi, è il modo migliore per rifiutare un’iniqua globalizzazione, che non solo trasforma in merce ogni conoscenza ed ogni bene comune, ma sta minando le basi stesse degli equilibri ambientali, indispensabili per ogni essere vivente, uomo compreso.

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